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La rivoluzione dei nuovi atei

Sembra che sia trascorso un secolo, eppure sono passati soltanto tre decenni. La caduta dei regimi comunisti europei rappresentò la fine di un’epoca – e, per il politologo Francis Fukuyama, la fine della storia tout-court. Nei sacri palazzi del Vaticano, in molti pensarono che fosse finita anche un’altra storia: quella dell’ateismo. Il duo Ratzinger-Wojtyla soppresse infatti il Pontificio consiglio per il dialogo con i non credenti. Ritenevano che la creatura montiniana non avesse più alcuna ragion d’essere: credevano nell’equazione ateismo=comunismo, e la caduta del secondo non poteva che far cadere a sua volta il primo. Non c’era più bisogno di interagire con un “nemico” considerato in fase terminale, e staccarono la spina. Nel 1998, Avvenire arrivò a pubblicare un pezzo strafottente sul congresso Uaar: lo intitolò Gli ultimi atei, ormai “meno numerosi dei panda in Cina”. Ma il quotidiano dei vescovi non era completamente dalla parte del torto, perché una sensazione del genere era in parte condivisa anche nel campo opposto. Qualche lettore ricorderà le riunioni a cui partecipava vent’anni fa: sporadiche, carbonare, piene di rimpianti sul passato e di apprensioni sul futuro. L’impegno laico somigliava molto alla leopardiana renitenza al fato. E invece. E invece venne l’11 settembre, rendendo palese a chiunque che un mondo più religioso non è necessariamente anche un mondo più pacifico. Ma, soprattutto, venne internet. A dire il vero, era già venuta nel 1991. Dal 2000 in poi avrebbe però cambiato il pianeta assai più del crollo del muro di Berlino. Avrebbe anche permesso agli atei di tanti luoghi sperduti di entrare finalmente in contatto e di non sentirsi finalmente più soli. Le loro riflessioni potevano ora virtualmente arrivare all’intera umanità. Tra i primi documenti che circolarono vorticosamente nella neonata community atea ci fu anche un commento scritto da un famoso biologo inglese, Richard Dawkins, intorno ai fatti dell’11 settembre. Nel 2004 uscì La fine della fede: era il primo libro di un ancora sconosciuto Sam Harris, ma l’anno successivo entrò nella classifica dei bestseller del New York Times, rimanendoci per 33 settimane. Nel 2006, il boom: Harris fece il bis con Lettera a una nazione cristiana, Dawkins pubblicò L’illusione di Dio e l’autorevole filosofo Daniel Dennett diede a sua volta alle stampe Rompere l’incantesimo. I mass media annusarono la tendenza e cominciarono a parlare dei “tre moschettieri del nuovo ateismo”. Quando uno dei giornalisti più conosciuti, Christopher Hitchens, diffuse nel 2007 Dio non è grande, diventarono “i quattro cavalieri”. Come i funesti protagonisti del libro dell’Apocalisse. Era un fenomeno che scompaginava convinzioni consolidate (seppure da poco tempo, come si è visto). Ma era comunque un fenomeno di nicchia, anche se coinvolgeva personaggi famosi. E non era nemmeno tanto nuovo, guardando ai contenuti. Tutte e cinque le opere proponevano una critica serrata alla religione – come già quelle di Schopenhuaer o di Russell, per esempio. O come quelle di Odifreddi, Onfray e Schmidt-Salomon, più o meno contemporaneamente (e con altrettanto successo) in Italia, Francia e Germania. Harris, peraltro, non ci stava nemmeno a definirsi ateo, ricordando a tutti che «nessuno ha bisogno di identificarsi come “non-astrologo” o “non-alchimista”». Dawkins era più ambizioso, e si proponeva esplicitamente di convertire il lettore credente con un testo divulgativo; una versione militante e per le masse del documentatissimo libro di Dennett, ma pur sempre scritta da un grande scienziato. Hitchens primeggiava per vis polemica, e da consumato giornalista aveva appuntito la matita ancora più del solito. Se i contenuti non erano particolarmente nuovi, non erano però mai stati presentati in una maniera più efficace. È il grande vantaggio degli autori atei: i loro ragionamenti possono essere riformulati da sé o da altri in forme eternamente perfettibili. I testi sacri, no. Ebbene, il 30 settembre 2007 i quattro cavalieri del nuovo ateismo si ritrovarono quasi casualmente a Washington, e decisero che la loro chiacchierata a casa Hitchens sarebbe stata ripresa e diffusa online. Un’amichevole improvvisata, dunque, tra quattro uomini che non si sarebbero mai più rivisti tutti insieme. Nelle scorse settimane la chiacchierata è finalmente arrivata nelle librerie del mondo anglosassone con il titolo The Four Horsemen. The Conversation That Sparked an Atheist Revolution. Impreziosito dall’introduzione dell’attore Stephen Fry e dagli amarcord dei tre cavalieri superstiti, dedicato alla memoria dello scomparso Hitchens, è un libro che ci permette di rivivere quei momenti e di azzardare un bilancio, quasi dodici anni dopo. Il dialogo tra i quattro, sin dall’inizio, si sofferma sulle critiche ricevute: da esponenti religiosi, ma non soltanto. I quattro sono stati accusati di essere “striduli, arroganti, caustici”. Di mancare di umiltà. Di non capire la religione – anzi, di non poterla proprio capire, in quanto non credenti. Tutti e quattro respingono ovviamente le contestazioni al mittente. Non solo: rilanciano a loro volta. Perché è semmai la religione a peccare di presunzione, con le sue innumerevoli affermazioni indimostrate sull’universo. Sono proprio i leader religiosi a negare che la fede possa essere osservata scientificamente, dati alla mano e usando la ragione, come qualunque altro fenomeno naturale (con buona pace dell’altrimenti grande Stephen Jay Gould e dei suoi magisteri non sovrapponibili). Dawkins ricorda che la religione va affrontata, e se del caso criticata, non diversamente dall’astrologia; Harris rimarca che “ogni persona religiosa critica le altre religioni nel nostro stesso modo”. E se è vero che ai quattro piacerebbe un sacco un mondo senza religioni, è altrettanto vero che le religioni sarebbero deliziate da un mondo senza ateismo – e senza tutte le altre religioni concorrenti. Ma quale sarà mai il modo più efficace di criticare le religioni? Ahinoi, “non c’è alcuna maniera gentile di dire a qualcuno ‘tu hai sprecato la tua vita’”, convengono Dennett e Harris. Ci sarà sempre chi si sentirà offeso, anche quando sta difendendo bizzarrie assolutamente implausibili: perché purtroppo appaiono tali soltanto a chi usa la ragione e si affida alla scienza, è costretto a constatare Dawkins. I quattro sono stati sovente accusati di non conoscere la teologia: ma, a parte che è largamente non vero e che la conoscono meglio della stragrande maggioranza dei fedeli, resta il fatto che la teologia è una disciplina assolutamente incapace di risolvere le questioni sollevate dalla ragione e dalla scienza. Alla fine, stringi stringi, la realtà è che, anziché rispondere argomentando, le confessioni religiose preferiscono darsi da fare (soprattutto con le istituzioni) affinché la loro dottrina non sia posta in discussione da nessuno. E anatema sia su chi ha comunque il coraggio di farlo, come la storia continua a insegnarci. La conversazione è tutto fuorché un manifesto ateo. E sono invece numerosi i punti di vista differenti. Per esempio, Harris ritiene che gli apologeti non possano nemmeno rivendicare la produzione artistica religiosa; sia perché non siamo assolutamente certi che un Michelangelo credesse veramente (rischiava la morte, affermando il contrario); sia perché, se il committente fosse stato secolare, oggi avremmo un patrimonio artistico quasi esclusivamente secolare. Hitchens dissente, perché non riesce nemmeno a immaginare che certe vette di poesia devozionale siano il frutto di una menzogna, o della piaggeria verso i mecenati (e Dawkins concorda con lui). C’è dissonanza anche sull’effettiva pericolosità delle religioni, e se siano tutte ugualmente pericolose. Hitchens, in particolare, arriva addirittura a ritenere che i veri combattenti per la laicità siano i soldati americani impegnati in Iraq e Afghanistan e, per contro, che le stesse argomentazioni dei nuovi atei siano assolutamente prive di effetti. Il convertitore Dawkins non è per nulla d’accordo (e non soltanto lui, probabilmente). Sulla presa d’atto della divergenza termina comunque la discussione. Alla fine, come evidenzia Dennett nella sua introduzione, “l’unico dogma condiviso è la fiducia nella verità, nell’evidenza e nella persuasione onesta”. Un dogma che, a ben vedere, può però essere condiviso anche da credenti. Harris ha ragione nel ricordare che la cultura, nelle sue varie forme, può costituire un’alternativa alla religione, ma è altrettanto vero che può conviverci serenamente. Dawkins rivendica agli atei sia “il coraggio intellettuale di accettare la realtà per quello che è: meravigliosamente e incredibilmente spiegabile”, sia “il coraggio morale di vivere pienamente l’unica vita che abbiamo: di vivere pienamente nella realtà, di goderne, e di fare il possibile per lasciarla in uno stato migliore di come l’abbiamo trovata”. La qualificazione dell’ateismo resta tuttavia in secondo piano rispetto alla critica alle religioni. Del resto, se ogni ipotizzabile realtà sovrannaturale è inesistente, l’ateismo è inevitabilmente vero di per sé, e non ha alcun bisogno di produrre qualche prova a favore...

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